Scoperta di bene archeologico: la proprietà pubblica è presunta

l’esercizio sulle stesse di legittime cause di possesso

Nel caso in questione, oggetto del contendere era una collezione di reperti archeologici che il ricorrente dichiarava essergli pervenuta per via successoria e a seguito di un possesso familiare durato più di cinquant’anni. Il ricorrente citava in giudizio il Ministero per i Beni e le attività culturali per l’accertamento della proprietà dei manufatti e per riottenerne il possesso.

Tuttavia la sua domanda veniva respinta sia in primo grado, che in appello: i Giudici ritenevano infatti irrilevante il possesso familiare degli oggetti per un lungo periodo di tempo (più di 50 anni), poiché questi ultimi, rientrando nel patrimonio indisponibile dello Stato, non potevano essere usucapiti.

Anche la Cassazione confermava la sentenza d’appello in quanto i beni archeologici appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato e, pertanto, si presumono culturali ed inusucapibili salvo che il privato fornisca la prova contraria: detta prova consiste nella dimostrazione che gli oggetti archeologici sono stati ritrovati “in aree non appartenenti allo Stato italiano” ovvero che la loro titolarità in capo a privati si è protratta per un periodo di tempo sufficiente a provarne il legittimo possesso.

Dunque l’attribuzione della titolarità del diritto al privato su un bene archeologico rappresenta una rara eccezione rispetto alla regola generale dell’appartenenza allo Stato di detto bene; lo Stato rimane infatti il riservatario della proprietà delle scoperte archeologiche.

La ratio di tale principio è quello di salvaguardare il patrimonio storico-artistico nazionale. L’acquisizione statale prevale sui diritti del proprietario del fondo e/o dello scopritore, ai quali viene assegnata una mera indennità (art. 92 Codice Urbani).

 

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