In questi giorni è tornato agli onori della cronaca il dibattito, invero mai sopito e sempre attuale, sulla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro dei c.d. riders, a seguito della notizia della notifica, da parte della Procura di Milano, di verbali di accertamento in base ai quali alcune note aziende di food delivery dovranno regolarizzare circa 60.000 ciclo-fattorini come lavoratori coordinati e continuativi, con inquadramento da lavoratori parasubordinati, previo pagamento di ammende per 733 milioni di euro.
In attesa di conoscere nel dettaglio come si svilupperà tale vicenda, il dato certo è che il dibattito sulla qualificazione giuridica di tale rapporto di lavoro è acceso e, fin dalla nascita del c.d. gig working, ci si è interrogati in merito a quale sia la tipologia contrattuale maggiormente idonea a garantire i diritti dei lavoratori senza disincentivare gli investimenti delle aziende di delivery (e, in particolare, di food delivery) che impiegano numerosi addetti nel nostro Paese, come nel resto del mondo.
Sul punto era già intervenuto il Legislatore con il c.d. decreto Riders (D.L.101/2019 conv. in L. 128/2019) il quale, oltre a fornire una prima regolamentazione del lavoro svolto attraverso piattaforma digitale, ha introdotto una disciplina specifica (con riferimento alla determinazione del compenso, alla indennità integrativa, all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie) intesa a porre livelli minimi di tutela per i lavoratori che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di determinati veicoli (c.d. riders, appunto).
Il nodo non pare tuttavia completamente risolto dall’intervento legislativo e anche la giurisprudenza di merito ha oscillato tra la qualifica dei riders come lavoratori autonomi (T. Firenze, 10 febbraio 2021) e la qualifica degli stessi come lavoratori subordinati (T. Palermo, sentenza del 20 novembre 2020).
Del resto, sulla qualificazione del rapporto di lavoro dei ciclo-fattorini aveva già avuto modo di esprimersi anche la Suprema Corte (la cui vicenda, come è noto, trae origine dall’impugnazione della sentenza della Corte di Appello di Torino che, in riforma della sentenza del Tribunale torinese, aveva ritenuto applicabile a tale rapporto di lavoro il D. Lgs. n. 81 del 2015) la quale, negando l’applicabilità di un’ipotesi di tertium genus tra la subordinazione e la autonomia, aveva condiviso l’orientamento della Corte di Appello torinese affermando che ai riders dovrebbe essere riconosciuta la tutela prevista dal Jobs Act (Cass. 1663/2020).
È dunque evidente che le notizie di questi giorni si collocano all’interno del precedente solco tracciato dal Legislatore e dalla giurisprudenza e, molto probabilmente, le determinazioni della Procura milanese avranno ripercussioni anche sui delicati rapporti tra le parti sociali.
L’indiscutibile necessità di tutelare i diritti dei riders, garantendo loro le opportune tutele per affrontare le mansioni (spesso anche pericolose) svolte, deve infatti essere coniugata con quella di non disincentivare gli investimenti degli imprenditori nel settore del delivery, comparto che, nel solo nel 2020, ha fatturato circa 900 milioni di euro e pare avere prospettive di crescita costanti.